Il passaggio generazionale nelle imprese; un processo complesso da gestire al meglio

Intervista del Dott. Stefano Piermaria al Dott. Mario De Caro Professore Ordinario di Filosofia Morale dell’università Roma Tre e presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica

Il tessuto imprenditoriale italiano è costituito in massima parte da piccole e medie aziende di tipo padronale o familiare e, statisticamente, oltre la metà delle imprese, è gestita da over 60 che, nei prossimi anni, dovranno confrontarsi con la necessità di un passaggio generazionale. Si tratta spesso di realtà di successo, nate nel dopoguerra. Quanto il passaggio di testimone, se non gestito al meglio, può rappresentare una fase critica e quanti i rischi di causare un impoverimento della ricchezza generata?

Come ben noto, l’imprenditoria ha trainato in modo straordinario la ripresa del nostro paese a partire dalla Seconda guerra mondiale e poi dopo, con il boom economico. 75 anni fa, alla fine del conflitto, che aveva ridotto l’Italia allo stremo, eravamo un paese poverissimo con un’altissima disoccupazione: una terra di emigrazione e di povertà diffusa. E però in soli 15 anni — grazie al piano Marshall, ma anche al grande spirito imprenditoriale italiano, venne il boom e da allora, tra alti e bassi ma sostanzialmente con regolarità, l’Italia è divenuto uno dei paesi più ricchi del mondo e fa parte del G7, ex-G8 e parte del merito di questi straordinari risultati sta nella peculiarità del sistema economico e industriale italiano.

È vero naturalmente che, soprattutto durante la prima Repubblica, la nostra politica ha saputo redistribuire la ricchezza in maniera abbastanza adeguata per contenere la povertà, ma è anche vero che in Italia rimane, ormai da due secoli, il problema dello scarto tra il Settentrione e il Meridione, anche se qualche segnale di miglioramento. In questo senso, però si intravede un problema diverso, ma non meno importante, è che le nostre imprese sono gestite, per la maggior parte, da persone di una certa età che presto dovranno essere sostituite. In particolare si parla soprattutto di piccole e medie imprese, perché le grandi aziende si sono dissolte o sono diventate multinazionali con sede all’estero. C’è dunque il problema di come le piccole e medie imprese debbano rinnovarsi se vogliono competere in modo adeguato in un mondo in cui regole e forme della competizione economica e finanziaria cambiano con grande rapidità.

Il ricambio generazionale è certamente un processo complesso e rischioso per l’imprenditore e per l’azienda stessa e in Italia, dove il 65% delle imprese con un fatturato pari o superiore a 20 milioni di euro è rappresentato da aziende familiari, spesso si innescano, all’interno delle stesse, conflitti e tensioni. Per prevenire questo tipo di criticità, è possibile pianificare al meglio e con anticipo questo passaggio, preparando piani strategici razionali, al di fuori di condizionamenti e sentimenti familiari?

La necessità del ricambio generazionale nelle piccole e medie imprese è un aspetto essenziale dell’economia italiana, che in gran parte si fonda appunto su quel tipo di tessuto aziendale. Laddove nelle grandi aziende, o in ciò che resta di esse, i processi di selezione dei nuovi dirigenti seguono gli standard internazionali, questo non è sempre vero nelle piccole aziende, dove tradizionalmente si tende al passaggio intrafamiliare. Questo metodo, però, oggi rischia di non funzionare più bene. Cominciamo a notare alcuni fatti importanti. In primo luogo, con il mondo globalizzato la competizione economica non è limitata al proprio paese, perché i competitor possono trovarsi ovunque, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Sud-est asiatico all’Europa orientale. E ciò comporta, per esempio, che è sempre più difficile affermarsi nel mercato globale senza avere nell’azienda qualcuno in posizione di rilievo che parli inglese, non necessariamente in modo perfetto; l’importante è essere in grado di comunicare ciò che si vuole esprimere e capire il senso di ciò che ci viene detto (comprendendo possibilmente anche metafore e battute per evitare catastrofi comunicative). In secondo luogo, i giovani imprenditori devono essere in grado di seguire il continuo cambiamento delle modalità di funzionamento dei mercati, con legislazioni e costumi diversi, e in continua evoluzione, da paese a paese. Infine è indispensabile che le nuove generazioni siano in grado di utilizzare le nuove tecnologie digitali e di aggiornarsi continuamente in proposito: dagli sviluppi di internet e dei social media agli incessanti progressi dell’intelligenza artificiale, il progresso è ormai inarrestabile e per le imprese che non sapranno rimanere al passo con questi cambiamenti sarà sempre più difficile sopravvivere.

Premesso che qualsiasi pianificazione richiede tempo ed energie, oggi, passare il testimone necessita di un nuovo approccio culturale e psicologico, che può essere aiutato da percorsi di formazione, di coaching e di mentoring, strumenti sicuramente nuovi per molti imprenditori. Questi percorsi e queste metodologie possono essere utili per contribuire a limitare le cosiddette “fasi critiche” di un passaggio generazionale?

La formazione dei nuovi ceti dirigenti delle aziende italiane è oggi più importante che mai, perché i cambiamenti si susseguono a ritmi incalzanti e bisogna essere preparati ad affrontarli. Può pertanto capitare che un erede della famiglia che possiede un’impresa si dimostri impreparato a prenderne il timone, almeno se si vuole che essa continui a prosperare nel mondo globalizzato. Va poi sottolineato un altro aspetto che può essere importante nella formazione dei futuri dirigenti aziendali e non è ancora molto praticato da noi: è buona regola che i potenziali eredi di un’impresa familiare facciano esperienze lavorative anche a livelli umili, magari al di fuori dell’azienda di famiglia, se non addirittura all’estero.

Nella sua domanda, lei menzionava strumenti psicologici, come il coaching e il mentoring. Si tratta in effetti di strumenti di cui all’estero, sempre più spesso, i manager, i CEO, i dirigenti si dotano. In questo senso sottolineerei due aspetti importanti. Il primo è l’importanza, anzi ormai potremmo dire quasi l’indispensabilità, di seguire percorsi di rafforzamento psicologico della propria personalità: ciò può infatti migliorare la nostra capacità di gestire i conflitti e le tensioni tipiche del lavoro d’impresa e, allo stesso tempo, migliorare le proprie capacità relazionali, empatiche e comunicative in modo da saper motivare i propri dipendenti, aiutandoli a tirar fuori la loro parte migliore. Il secondo aspetto è che oggi innumerevoli studi mostrano che la cognizione umana, la nostra capacità di comprendere il mondo e di elaborare dati e soprattutto le modalità con cui prendiamo le decisioni sono molto ma molto diverse da come ce le siamo sempre immaginate. E ciò vale per i rapporti umani intra ed extra-aziendali, inclusi quelli con i clienti e i competitors. Le modalità attraverso le quali una persona decide di acquistare un certo prodotto invece di un altro sono in realtà molto meno razionali di quanto normalmente si pensi. Questo è un fenomeno che è già parzialmente messo in luce dal meccanismo pubblicitario che ci spinge ad acquistare un prodotto, spinti da motivi inconsci di cui siamo del tutto ignari. Questa questione però va ben oltre il tema della pubblicità.

I processi cognitivi inconsci che governano i nostri processi decisionali sono onnipervasivi e studiatissimi (sono stati assegnati premi Nobel a studiosi che se ne sono occupati!). Ed è evidente che un’impresa i cui dirigenti sono consapevoli di quei processi avrà un grande vantaggio sulla concorrenza, sia perché saprà difendersi meglio degli altri da questo tipo di condizionamenti, sia perché quell’impresa imparerà a comunicare con assai maggiore efficacia con i propri clienti e partner, e anche all’interno della propria azienda.

Stando alle statistiche, solo circa il 30% delle aziende familiari sopravvive al fondatore, mentre quelle che riescono ad arrivare alla terza generazione sono il 13% e solo il 4% arriva alla quarta generazione. Quanto, le sfide della innovazione e della sostenibilità, combinate con l’allungamento della vita media, possono migliorare queste percentuali, grazie al contributo di più generazioni?

Questa questione è fondamentale. Non è detto, infatti, che le aziende che trasmettono automaticamente i posti di dirigenza alle nuove generazioni della stessa famiglia se ne avvantaggino. Come ho detto prima, è certamente vero che per molti anni la conduzione familiare è stata la forza delle piccole aziende italiane, che dovevano competere in nicchie di mercato geograficamente limitate. In quei casi, la solidità dei nuclei ha potuto certamente aiutare a far prosperare le aziende. In generale, il modello dell’impresa a trazione familiare ha funzionato bene e per lungo tempo; oggi però le cose sono molto cambiate, perché appunto la competizione economica e finanziaria è divenuta globale e richiede competenze nuove e molto sviluppate, che non è detto che le nuove generazioni possiedono.

Quando si assume un manager o un dirigente esterno si perde il richiamo alle radici dell’azienda, un richiamo che può aiutare sia nelle comunicazioni all’esterno sia nelle relazioni all’interno dell’impresa che può guadagnare in termini di competenze e di esperienza. Quindi che cosa si può fare? Volendo valutare la possibilità di affidare l’azienda, ad esempio, ad un figlio l’imprenditore potrebbe porsi la domanda se un’azienda competitor, che fosse in cerca di un dirigente esterno, assumerebbe una figura con caratteristiche simili a quelle del rampollo. Se la risposta fosse un convinto sì, non avrei dubbio ad assumerlo, perché oltre alle indubbie capacità costui (o costei) avrebbe in più con sé il vantaggio di portare in dote la solidità della tradizione familiare. Ma se la risposta al test non fosse molto chiara o, peggio ancora, se fosse negativa allora dovrebbe, senza indugio, mettersi alla ricerca di un soggetto più qualificato.

Secondo i dati 2021 della tredicesima Edizione dell’Osservatorio AUB (Aidaf, Unicredit, Bocconi) la percentuale di leader familiari è scesa di quasi l’8%. Questo significa, una maggiore tendenza a coinvolgere leader non familiari all’interno delle aziende. Questa flessione è solo la conseguenza di rapporti familiari più aperti o più conflittuali, o può essere la scelta illuminata dei fondatori che stanno iniziando a separare la governance dalla gestione?

Fare impresa oggi è molto diverso da come si faceva solo venti o trent’anni fa. C’è bisogno di nuove competenze, di maggiore dinamismo, di conoscenze in molti nuovi campi e quindi se gli eredi non sono all’altezza delle sfide, sarà meglio mandarli a cercare fortuna altrove oppure tenerli in azienda in posizioni defilate, assumendo manager e dirigenti più qualificati basandosi sui curricula, ma soprattutto su seri colloqui di lavoro (svolti con l’aiuto di psicologi ed altri esperti).

Quanto incide il tema del rapporto fra meritocrazia professionale e meritocrazia per appartenenza familiare? Come si può gestire con equilibrio il tema della successione evitando il rischio che vada a scapito della sopravvivenza dell’impresa e delle opportunità per il futuro? Quanto incidono, nel pianificare il cambiamento e assicurarne la continuità. i legami affettivi, familiari, emozionali nell’azienda, in particolare se l’imprenditore ne è anche il fondatore e l’azienda viene intesa come un modo per dare una occupazione a tutti i membri della famiglia, senza alcuna valutazione delle capacità e delle caratteristiche professionali? Quanto può aiutare la formazione, il confronto con i casi di successo, il supporto ed il confronto con le Associazioni professionali e imprenditoriali?

Non credo che si possa parlare di meritocrazia per appartenenza familiare: il merito, infatti, non ha nulla a che fare con le origini, ma solo con le competenze, le abilità e l’esperienza. Essere figlio di un grande industriale, o anche di un ottimo piccolo industriale, non vuol dire necessariamente essere un ottimo manager. È vero che i nessi familiari possono solidificare il clima all’interno di un’impresa; però possono anche comprometterlo. Si sa, infatti, che i contrasti familiari tendono a essere molto più violente delle fisiologiche tensioni tra persone che non hanno legami di parentela. Naturalmente non sto dicendo che, nella successione di un’azienda, occorre necessariamente passare la mano all’ambito extrafamiliare, però non si può pensare il passaggio della nostra azienda a figli o nipoti come ad un automatismo: bisogna avere il coraggio di valutare seriamente se costoro hanno i requisiti giusti per prendere il bastone del comando. Ormai la competizione economico-finanziaria è troppo dura e complicata per continuare ad osservare la nobile ma antica tradizione del familismo economico. Ne va del futuro delle nostre imprese! Non esiste impresa in cui non sia necessario il continuo aggiornamento e il confronto con esperti esterni. E, in questo senso, il contributo delle Associazioni professionali e imprenditoriali, quando sono gestite professionalmente, non è solo importante: è fondamentale.