Di Carlo Zandel – HR Industrial Relations & Payroll Manager presso FATER (Joint Venture Angelini/P&G)
Il costante e rapido cambiamento tecnologico determina una conseguente e repentina trasformazione non solo degli strumenti, ma anche delle problematiche e delle soluzioni per risolverle: l’esperienza passata, pur restando centrale, non basta, serve anche un costante aggiornamento e riqualificazione delle competenze, delle abilità e delle conoscenze per contrastare le possibili dinamiche di esclusione che si producono nella knowledge society.
Ciò nondimeno perché produttività e competitività non sono date solo dall’innovazione tecnologica, ma anche dalla presenza di figure specializzate: cambia la produzione e quindi, di conseguenza, cambia il lavoro. Fondamentale è quindi la formazione continua, che, nell’era della connessione perpetua, si potrebbe chiamare, appunto, «formazione perpetua». La c.d. teoria dei due tempi formativi (prima si studia a scuola, poi si lavora nell’impresa, senza contaminazioni in nessuno dei due sensi) nel contesto della grande trasformazione del lavoro perde senso: anche alla luce di quanto detto nel precedente sotto-paragrafo, formazione e lavoro si congiungono in un unico tempo formativo che dura l’intera vita lavorativa.
Sia ben inteso, la formazione continua in questione non si basa sul semplice aggiornamento tecnologico delle competenze, delle abilità e delle conoscenze (che è comunque centrale), anche in ottica dei nuovi mestieri, ma va oltre a questo, in quanto risulta fondamentale l’utilizzo critico e correttamente contestualizzato delle nozioni di cui si è in possesso, e ciò a maggior ragione nel contesto di Industry 4.0. Se in passato il più importante fattore di successo era dato dal possesso del capitale fisico o di qualche materia prima, oggi la produzione del valore aggiunto è legata principalmente alla disponibilità di un capitale umano di qualità, capace di innovare, di cavalcare l’innovazione e di calarlo all’interno dei processi aziendali se non anche di anticiparlo».
Particolarmente complessa nel contesto di Industry 4.0 è, come evidenzia ADAPT, «la sfida della riqualificazione» dei lavoratori cresciuti e formati nella stagione del posto fisso dal diploma alla quiescenza, nei decenni della “linearità” prima si studia, poi si lavora, infine si va in pensione di fronte al problema sociale e politico di un cinquantenne che nella vita si è abituato a svolgere mansioni ripetitive ora sostituite dalla tecnologia è impossibile intervenire con una strategia di lungo termine, ma necessariamente si opera in emergenza. La soluzione politico/sindacale più tradizionale di fronte a situazioni di questo genere è il prepensionamento o quantomeno uno “scivolo” che permetta alla persona di uscire in anticipo dal mercato del lavoro.
Questo approccio non è più possibile per almeno due ragioni: offende la dignità della persona e il suo diritto a contribuire alla vita della società, tanto più quando ancora fisicamente sano e con decenni di vita attiva avanti a sé; è insostenibile per il bilancio pubblico». Non essendo più praticabile questa soluzione, risulta quindi fondamentale reinserire nel mercato del lavoro le persone espulse, aggiornandone le conoscenze e riqualificandole.
Detto ciò, «la formazione continua si colloca in una posizione di prossimità alle esigenze del sistema organizzativo e produttivo e pertanto costituisce un investimento “condiviso”, a cui sono direttamente interessati sia le organizzazioni sia i lavoratori»; infatti «I benefici per il lavoratore consistono in un aumento della retribuzione o dell’occupabilità, collegati agli incrementi di produttività derivanti dalla formazione. L’occupabilità consentirebbe anche una maggiore mobilità sia essa interna all’impresa o esterna, tra diverse imprese. Attraverso la formazione continua, lo stock di capitale umano può, infine, essere adattato e ampliato coerentemente con l’evoluzione, da un lato, delle esigenze della domanda di lavoro e, d’altro con le esigenze del lavoratore derivanti dal suo specifico percorso di vita. Dal canto suo l’impresa può trarre dalla formazione tutti i vantaggi derivanti dalla possibilità di disporre di personale qualificato, adattabile a diverse esigenze organizzative e tecnologiche, in grado di interagire e contribuire attivamente alla soluzione di problemi».
In tale contesto muta lo scambio datore-lavoratore: questo non sarà più solo tra salario e contratto ma tra contratto e formazione, con il capitale umano sempre più elemento di scambio.
Quanto detto si colloca comunque in un contesto più ampio e preesistente (ma comunque completamente correlato anche) a Industry 4.0. Da diversi decenni, oramai, «l’economia “chiede” alla società un comportamento attivo e flessibile, rivolto ad interiorizzare il cambiamento come caratteristica strutturale di funzionamento adeguato ai mercati del lavoro e alle mutevoli esigenze del sistema produttivo». Come contropartita a ciò è stato proposto un nuovo concetto di sicurezza sociale basato sulla flexicurity, la quale si propone di favorire, nello stesso tempo, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza sociale attraverso, prima di tutto, politiche attive del lavoro e, solo poi, di sostegno passivo, soprattutto a vantaggio delle categorie più deboli dei lavoratori. Questo ossimoro, già lessicale, sarebbe reso possibile, da una parte, dalla riduzione delle tutele nel rapporto di lavoro (flessibilità), dall’altra, da un aumento delle stesse nel mercato del lavoro (sicurezza). In tale contesto, e, ancor più, nella dimensione della knowledge & learning economy, un ruolo centrale, al fine dell’implementazione di un sistema di flexicurity, lo ha, evidentemente, l’apprendimento continuo: l’aggiornamento delle competenze diviene, così, «la vera tutela post-moderna sul mercato del lavoro».
«L’adozione della prospettiva del lifelong learning valorizza la formazione come dispositivo di protezione contro la disoccupazione e la precarietà lavorativa, come leva per lo sviluppo della carriera professionale, come strumento per accrescere l’empowerment individuale in chiave di partecipazione attiva all’economia e alla società». In questo contesto, sempre più centrale diventa il c.d. learnfare: questo termine «rimanda a una visione della formazione come diritto di cittadinanza e strumento di partecipazione attiva, che richiede la presenza di una serie di dispositivi normativi a partire dai congedi formativi, nonché all’azione esercitata in tale senso dalle relazioni industriali, che inducono a investire in formazione anche le imprese». Il portato di tale concetto è che non esiste più un diritto all’occupazione, ma deve nascere un diritto all’occupabilità, che si basi su un diritto soggettivo alla formazione, di cui Stato e Parti Sociali se ne devono fare carico, e ciò sempre più nel contesto della grande trasformazione del lavoro e dei suoi effetti sulla qualità e la quantità del lavoro futuro.
I Fondi Interprofessionali Bilaterali assumono, nel panorama della formazione continua, una posizione di sempre maggior rilievo, gestendo la parte più consistente delle risorse destinata ad interventi di formazione continua. Se davvero si vuole passare dalla tutela del posto di lavoro a quella di un percorso lavorativo e professionalizzante che transita da un lavoro all’altro (e da un contratto all’altro), non c’è dubbio che è necessario predisporre strumenti di tutela, di promozione e di verifica. Tra questi strumenti c’è, senza dubbio, quello della formazione continua.
I Fondi gestiti dalla bilateralità possono essere quindi validi mezzi per passare da un’impostazione basata sulla tutela del posto di lavoro – tutela progressivamente indebolita dalla scure della legge – ad una basata, invece, sulla tutela dell’occupabilità del lavoratore: questa è la nuova sfida 4.0.