Noi siamo qui nel sociale è lottiamo per ridurre le distanze, abbattere i muri che alimentano le diseguaglianze. Il muro della pandemia, nella fase più dura da marzo 2020 a fine 2021, ha partorito, ogni giorno, 25 nuovi miliardari e 6 milioni di nuovi poveri; una ricchezza concentrata in poche mani. In Italia la ricchezza dell’1% “benestante” della popolazione supera 50 volte quella del 20% della stessa, che lotta per non sprofondare nella povertà.
Poi ci sono coloro che dobbiamo avere “nel cuore” in gran parte giovani e donne, ai quali la precarietà occupazionale toglie la prospettiva e alimenta le paure. Sono 3 milioni i precari con in pancia i part-time involontari del commercio, della ristorazione, delle imprese di pulizia, oltre 2 milioni di disoccupati ufficiali e poi 3 milioni di giovani che non studiano, non lavorano e si formano, considerando l’80% dell’occupazione a termine, recuperata nell’ultimo anno; sono coloro con lavoro a basso reddito, un fenomeno che dilaga con 6 lavoratori su 10 nel turismo e 4 su 10 nel commercio. È ora di voltare pagina. Quella contro le diseguaglianze è sfida più rilevante del nostro tempo ed è la nostra sfida. Dovrebbe essere la sfida dello Stato e della politica con la P maiuscola che si ritrova nel compromesso costituzionale.
Mattarella nel giorno del suo insediamento a Presidente della Repubblica ricordava che “le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita, ma piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita”. Eccola qua la madre di tutte le battaglie. Le diseguaglianze si combattono redistribuendo risorse, ma soprattutto con politiche predistributive. Investimenti in istruzione e sanità, pari opportunità, politiche a sostegno della famiglia, e infrastrutture.
In questo contesto la formazione continua può offrire il suo contributo; disoccupati, e occupati, giovani e donne, le fragilità del sistema formativo italiano si manifestano in modo inequivocabile. Il terziario di mercato, polmone occupazionale del futuro, in stretto rapporto con il sistema manifatturiero, di servizio all’impresa, o alle persone che sia, risulta scosso da processi di pesante ristrutturazione e riorganizzazione del lavoro. Le imprese commerciali e turistiche sono al centro di un processo trasformazione che muta le caratteristiche del lavoro che conoscevamo. Ciò anche a seguito degli effetti destrutturanti della pandemia.
Insufficienti competenze e lunghi periodi di inoccupazione si associano ad un mercato del lavoro in cui la quota di lavoro precario e a tempo determinato aumenta, tanto da rendere urgenti iniziative di aggiornamento e qualificazione/riqualificazione delle competenze combinate con azioni di accompagnamento e reinserimento al lavoro. L’elevata incidenza dei giovani disoccupati si affianca alla quota consistente di coloro, che non studiano e non lavorano. I divari territoriali e socioeconomici rendono particolarmente fragili le donne e coloro che risiedono al sud. Metà della popolazione adulta che lavora è bisognosa di riqualificazione professionale per scarsa conclamata capacità digitale e insufficienti competenze di base. Una popolazione occupata per di più in posti di lavoro scarsamente qualificati, destinati a subire un importante cambiamento tecnologico.
Politiche passive di sostegno al reddito e politiche attive per l’avviamento al lavoro sembrano essere rese finalmente complementari nella progettualità finanziata dal PNRR. Il piano nazionale Nuove Competenze, progetto GOL e gli altri interventi di sistema rappresentano una speranza concreta in un paese alle prese nel terziario con il lavoro povero; in generale con la scarsa propensione dei lavoratori alla partecipazione ai processi di formazione ed una cronica incapacità del sistema pubblico a supportare politiche efficaci di inserimento al lavoro.
L’impegno della UILTuCS, nella bilateralità contrattuale e nei fondi interprofessionali per sostenere politiche complementari atte a diversificare ed ampliare l’offerta formativa per gli occupati del settore è tangibile, tuttavia rimane tanta strada da fare. Una attenta analisi della formazione finanziata attraverso i fondi interprofessionali dimostra la debolezza del sistema. Nel nostro paese solo 8 adulti su 100 tra i 20 e i 64 anni svolgono annualmente attività formativa e si tratta prevalentemente di livelli apicali ed impiegati. Il tasso di adesione delle imprese ai fondi interprofessionali si ferma al 20% portando con se il 59% dei dipendenti. Solo il 12% delle imprese del turismo e il 22% delle imprese commerciali aderiscono ai fondi interprofessionali e la maggioranza di queste sono dormienti. Se guardiamo il tasso di partecipazione complessivo degli occupati nei Paesi europei ad attività di formazione, la media europea si attesta al 35,8% (Italia: 33,3% Olanda: 53,8% Germania: 42,7% Francia: 39,2%). Sul monte salari alla formazione in Italia è destinato lo 0,30%, in Spagna lo 0,70%, in Francia si arriva all’1%. Dobbiamo essere consapevoli che il valore del lavoro passa attraverso l’acquisizione continua di nuove competenze. Fondi interprofessionali e Bilateralità contrattuale possono e devono definire politiche complementari nell’utilizzo delle risorse e nella progettualità. Serve una svolta.
Paolo Andreani